Il risarcimento per un’auto usata danneggiata può superare il prezzo d’acquisto. Ecco come viene calcolato il danno reale.
Quando un’auto usata viene danneggiata in un incidente stradale, sorge spesso un problema: come calcolare il giusto risarcimento? Il valore da considerare è quello di mercato, quello d’acquisto o quello necessario per la sua riparazione? E se il prezzo richiesto dal meccanico superasse il valore residuo del mezzo ante-sinistro? La questione è tutt’altro che banale e una recente sentenza del Tribunale di Foggia (n. 403 del 25 febbraio 2025) ha fornito chiarimenti importanti, rimanendo sul solco di quanto affermato dalla Cassazione.
Molti si chiedono: in caso di incidente con auto usata, il risarcimento può superare il prezzo d’acquisto? La risposta, come vedremo, è affermativa, ma a determinate condizioni.
In questa guida, analizzeremo il caso specifico deciso dal Tribunale di Foggia, spiegando in modo chiaro e dettagliato perché il prezzo d’acquisto di un’auto usata non è sempre il parametro corretto per calcolare il risarcimento, quali sono i criteri da seguire e come viene determinato il valore reale del danno subito.
La vicenda
Un’auto usata (una Mercedes), acquistata circa tre settimane prima, è stata danneggiata in un incidente stradale. Il proprietario ha chiesto il risarcimento dei danni. Il Giudice di Pace ha riconosciuto un risarcimento di quasi 6.800 euro, basandosi sulla stima di un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU). Tuttavia, il proprietario aveva pagato l’auto solo 5.200 euro. La controparte ha fatto appello, sostenendo che il risarcimento fosse eccessivo.
Il Tribunale ha confermato la decisione del Giudice di Pace, affermando che il prezzo d’acquisto di un’auto usata non è sempre un parametro vincolante per determinare il risarcimento. Questo perché il prezzo d’acquisto può essere influenzato da fattori soggettivi e personali (sconti, permute, vendite di favore, ecc.).
Qual è il criterio corretto per calcolare il risarcimento?
Il criterio corretto è quello di basarsi sul valore di mercato dell’auto al momento del sinistro, tenendo conto di:
- valore medio commerciale: quanto varrebbe l’auto, in condizioni normali, sul mercato dell’usato;
- vetustà: l’età e il chilometraggio dell’auto;
- costo dei ricambi e dei materiali: quanto costano i pezzi di ricambio e i materiali necessari per riparare l’auto;
- eventuali danni da fermo tecnico: il costo del mancato utilizzo dell’auto durante il periodo di riparazione.
Come ha fatto il CTU a stabilire il valore dell’auto?
Il CTU effettua una perizia, svolgendo ricerche di mercato:
- presso rivenditori di auto usate;
- sui principali siti web del settore.
Questo gli permette di stabilire un valore oggettivo dell’auto, indipendente dal prezzo pagato dal proprietario.
Ma se il proprietario ha pagato l’auto molto meno, non è ingiusto che riceva un risarcimento maggiore?
Il Tribunale ha chiarito che il principio fondamentale è quello dell’*integralità del risarcimento*. Ciò significa che il risarcimento deve coprire *tutto* il danno subito, riportando il danneggiato nella situazione in cui si troverebbe se l’incidente non fosse avvenuto. Il fatto che il proprietario abbia fatto un “affare” acquistando l’auto a un prezzo inferiore non cambia la sostanza: il danno subito corrisponde al valore di mercato dell’auto e ai costi di riparazione.
Nel caso specifico, il proprietario aveva rottamato l’auto. Il Tribunale ha precisato che questo non influisce sul diritto al risarcimento, che è basato sul danno subito, non sulla riparazione effettiva. L’importante è che ci siano “evidenze concrete” del danno, come la perizia del CTU.
Esempi pratici
Scenario 1: acquisto a prezzo di mercato. Mario compra un’auto usata a 10.000 euro, che è il suo valore di mercato. Dopo un incidente, il CTU stima i danni in 8.000 euro. Mario ha diritto a 8.000 euro di risarcimento.
Scenario 2: acquisto a prezzo di favore. Luigi compra la stessa auto usata a 5.000 euro, grazie a uno sconto speciale del venditore. Dopo un incidente, il CTU stima i danni in 8.000 euro. Luigi ha comunque diritto a 8.000 euro di risarcimento, perché quello è il valore del danno subito.
Scenario 3: auto in cattive condizioni: è il caso della vicenda in oggetto. L’appellante sosteneva che l’auto fosse in cattive condizioni, per questo l’aveva pagata meno. Per il Tribunale, in mancanza di evidenze oggettive, questa ipotesi non inficia il diritto all’integrale risarcimento.
Cosa succede se il costo di riparazione supera il valore dell’auto?
Può succedere che, per riparare un’auto, il prezzo da pagare all’officina sia superiore al valore dell’auto ante-sinistro. In questi casi si parla di “danno antieconomico“.
Il principio fissato dal nostro ordinamento è che il risarcimento non può mai superare il danno: altrimenti esso si risolverebbe in un lucro per il danneggiato. Ma anche questa regola ha un’eccezione. Pertanto, la Cassazione ha detto che:
- quando il risarcimento supera di poco il valore del mezzo, allora esso viene accordato in modo pieno. Se, ad esempio, un’auto vale 5.000 euro e ripararla costa 6.000 euro, il risarcimento sarà totale e quindi il proprietario del mezzo riceverà 6.000 euro;
- quando il costo della riparazione supera di molto il valore di mercato del veicolo, allora il risarcimento è pari a quest’ultimo parametro. Se, ad esempio, un’auto vale 5.000 euro e ripararla costa 10.000 euro, il risarcimento sarà pari a 5.000 euro.
Posso chiedere il risarcimento anche se non ho ancora riparato l’auto?
Il diritto al risarcimento nasce con il danno, non con la riparazione. Pertanto puoi chiedere il risarcimento a prescindere dalle sorti dell’auto: puoi decidere di riparare l’auto, di venderla danneggiata, o di tenerla così com’è. L’importante è che il danno sia documentato (con preventivi, perizie, ecc.).
Inoltre, la Cassazione ha specificato che il risarcimento è comprensivo dell’IVAversata al meccanico. Difatti il consumatore finale non può recuperare l’imposta come un normale imprenditore o un professionista con Partita Iva.
Il consenso informato integra una giustificazione dell’attività medica o rappresenta solo un presupposto di liceità dell’attività del medico al quale non è attribuibile un generale diritto di cura?
Fa molto discutere, specie in questi ultimi tempi, il significato da attribuire al consenso informato nell’ambito della medicina estetica. In linea generale, possiamo sin d’ora affermare che il consenso informato nella chirurgia estetica è più vasto rispetto a qualsiasi altra branca medica. Il medico non deve solo acquisire dal paziente l’accettazione per il tipo di intervento; ma anche quella sul risultato estetico che ne deriverà perché questa è una scelta privata, riservata a chi si sottopone all’intervento. Ipotizziamo, per essere chiari e specifici, che il chirurgo estetico aumenti di qualche taglia, rispetto a quanto concordato e quindi senza il consenso della paziente, il volume del seno. Ciò ci fornisce lo spunto per entrare nel merito del nostro articolo e analizzare cosa succede in caso di lesioni personali colpose conseguenti a un intervento di chirurgia estetica.
Qual è il presupposto di liceità dell’attività medico chirurgica?
Il presupposto di liceità dell’attività medico – chirurgica è il consenso del paziente. Il medico, infatti, di regola e al di fuori di taluni casi eccezionali, legati all’impossibilità di esprimere il consenso o il dissenso, non può intervenire senza il consenso del paziente.
In ambito medico, il consenso deve essere informato, cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell’intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l’indicazione della gravità degli effetti del trattamento.
Il consenso informato ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di rifiutare eventualmente la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Il criterio della disciplina della relazione medico – malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario. Pertanto, la mancanza del consenso informato determina l’arbitrarietà del trattamento medico – chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo, ma la valutazione del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso.
Il consenso informato integra una causa di giustificazione dell’eventuale condotta negligente?
Il consenso informato non integra una scriminate, ossia una causa di giustificazione dell’attività medica poiché, espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un interveneto chirurgico. Esso rappresenta solo un presupposto dell’attività del medico che somministra il trattamento.
Quale valenza ha il consenso informato nel caso della chirurgia estetica?
Il ragionamento appena descritto con riferimento agli effetti del consenso informato sull’attività medico – chirurgica vale ancor di più nell’ambito della chirurgia estetica, che, per sua natura non è connotata dall’urgenza, essendo finalizzata a migliorare l’aspetto fisico del paziente in funzione della sua vita di relazione.
Conclusioni
Il consenso informato non integra una causa di giustificazione dell’attività medica poiché, espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, rappresenta solo un vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di cura a prescindere dalla volontà dell’ammalato.
Fonte: www.laleggepertutti.it
– Una recente sentenza chiarisce chi debba sostenere i costi dei lavori straordinari condominiali approvati dall’assemblea prima della vendita dell’appartamento –
Può succedere di acquistare casa e di essere chiamati, dopo poco, a dover pagare spese di ristrutturazione all’edificio che l’assemblea aveva deliberato già in precedenza.
In tal caso, l’acquirente che non sia stato informato di ciò dal venditore può pretendere che sia quest’ultimo a sostenere l’esborso? Chi paga i lavori straordinari in condominio approvati prima del rogito?
La questione è stata oggetto di numerose vertenze giudiziarie, a dimostrazione di quanto frequente sia questo tipo di controversia.
Difatti se è facile, prima di comprare casa, controllare l’eventuale pendenza di oneri arretrati col condominio (a tal fine, il venditore rilascia all’acquirente un’attestazione di avvenuto pagamento firmata dall’amministratore di condominio), non è altrettanto agevole spulciare tra i vari verbali delle assemblee per verificare se il condominio aveva in serbo l’avvio di opere di manutenzione straordinaria.
Una recente sentenza del Tribunale di Napoli (la n. 10025 del 2 novembre 2023) affronta tale argomento, spesso fonte di dubbi e controversie tra venditori e acquirenti di immobili. Vediamo cosa ha stabilito il tribunale partenopeo, in linea peraltro con l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Cassazione.
Quando il venditore deve pagare i lavori di ristrutturazione?
Le spese condominiali per lavori straordinari devono essere saldate da chi era proprietario dell’immobile al momento dell’approvazione dei lavori. Questo vale anche se i lavori vengono materialmente eseguiti dopo la vendita dell’immobile.
Pertanto, se la delibera assembleare con cui si autorizza il preventivo e si delega l’amministratore a firmare il contratto con la ditta appaltatrice è precedente al rogito (l’atto cioè di compravendita con cui si trasferisce la proprietà della casa) le spese devono essere imputate al venditore (Cass. n. 11199/2021, n. 18793/2020, n. 10235/2013, etc.).
Viceversa, se prima dell’atto di compravendita la questione è stata semplicemente discussa in assemblea, ma non ancora votata, la spesa ricade sull’acquirente.
Insomma, per stabilire a chi spetta pagare le spese straordinarie bisogna verificare chi era proprietario dell’appartamento alla data della delibera assembleare che approva l’esecuzione delle opere. Non contano le mere delibere “interlocutorie” se il voto non è stato ancora assunto.
Che succede se è stato firmato solo il compromesso?
Come anticipato, ciò che rileva ai fini dell’individuazione del soggetto obbligato al pagamento delle spese è laproprietà dell’immobile. Se quindi, al momento del voto, venditore e acquirente hanno sottoscritto solo il compromesso – ossia il cosiddetto contratto preliminare – l’onere ricade sul venditore. Difatti tale tipo di accordo serve solo per obbligare le parti a concludere, in un momento successivo, la compravendita. Dunque il passaggio di proprietà vero e proprio non si è ancora verificato e il titolare dell’immobile non è mutato.
Chi paga i lavori straordinari in caso di compravendita?
La giurisprudenza della Cassazione è unanime sul punto. Il principio è stato riaffermato dalla Corte di Appello di Napoli con recente pronuncia n. 3638 del 5 agosto 2022 secondo cui «al fine di individuare il momento in cui è sorta l’obbligazione di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni deve farsi riferimento al momento in cui viene approvata la delibera condominiale che dispone l’esecuzione di tale intervento, avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione. È invece irrilevante che i lavori siano stati o meno eseguiti in tutto o in parte… o che sia stato approvato lo stato di ripartizione dei lavori.
Il momento della delibera rileva per regolare l’obbligo di concorrere alle spese nei rapporti interni tra venditore e acquirente, ove questi non abbiano concluso accordi in diverso senso».
La vicenda
La vicenda è iniziata con un’ingiunzione di pagamento emessa da un’impresa contro un condomino, in quanto moroso nel pagamento delle quote per dei lavori straordinari. Il suo nome era stato fornito alla ditta appaltatrice dall’amministratore di condominio, così come prevede la legge (al fine di consentire il pignoramento innanzitutto nei confronti di chi non è in regola con i pagamenti). Il condomino in questione, che aveva acquistato l’unità immobiliare dopo l’approvazione dei lavori straordinari, ha contestato il debito sostenendo che la responsabilità delle spese fosse del venditore, proprietario dell’immobile al momento dell’approvazione dei lavori. I giudici gli hanno dato ragione.
Come anticipato infatti, i lavori straordinari devono essere pagati da chi era proprietario al momento dell’approvazione dei lavori dall’assemblea condominiale. Se l’immobile viene venduto dopo questa data, l’acquirente può richiedere al venditore di sostenere le spese.
Il contratto può prevedere un accordo diverso?
Il rogito notarile può contenere un accordo diverso tra le parti: in altri termini, il venditore potrebbe informare l’acquirente dell’approvazione dei lavori straordinari avvenuta prima della vendita e porre a carico di questi la relativa spesa. Se la clausola viene accettata, sarà il nuovo proprietario a dover sostenere gli oneri col condominio.
Conclusione
La decisione del Tribunale di Napoli fornisce un chiarimento importante sulle responsabilità legate ai lavori straordinari in condominio. È fondamentale per i venditori e gli acquirenti di immobili in condominio essere consapevoli di queste regole per evitare incomprensioni e disaccordi post-vendita.
La sentenza sottolinea l’importanza di un’attenta revisione delle delibere condominiali in corso e di accordi chiari e trasparenti durante il processo di compravendita.
Fonte: www.laleggepertutti.it
– Quando denunciare il proprietario del cane per disturbo alla quiete pubblica a causa del continuo abbaiare –
Non poche volte a disturbare il riposo delle persone non sono gli uomini ma i loro più fidi compagni: i cani. C’è chi non riesce a lavorare, a riposarsi o a dormire a causa del rumore causato del loro latrato. Tutto ciò però trova spesso una causa nel comportamento del padrone stesso: il cane abbaia più facilmente quando lasciato solo, affamato, nervoso o fuori dal balcone durante la notte. Ebbenechi chiamare se il cane del vicino disturba? La risposta dipende dall’entità dei rumori. È proprio questa la variabile che fa scattare il reato di «disturbo della quiete pubblica» e consente di sporgere una denuncia alla polizia o ai carabinieri. Negli altri casi, purtroppo, difettando gli estremi dell’illecito penale, l’unico modo per tutelarsi è ricorrere al giudice per ottenere una interdizione; ed i tempi si allungano notevolmente.
Cane che abbaia: quando è reato?
Il reato di disturbo alla quiete pubblica, che scatta anche in presenza del latrato del cane, si configura allorché i soggetti molestati non sono solo pochi e individuabili soggetti, ma – afferma la Cassazione – un «numero indeterminato di persone». Pertanto, è necessario che tutto il condominio e/o i residenti nei palazzi vicini siano in grado di sentire il cane abbaiare.
Non è però necessario che a lamentarsi siano tutti coloro al cui orecchio giunge il rumore. È sufficiente la denuncia di uno solo di questi se la “voce” del cane è percepibile in tutto l’edificio o il circondario.
Facciamo qualche esempio pratico. Se a sentire i latrati sono solo i condomini che vivono accanto, sopra e/o sotto l’appartamento ove vive il cane non c’è alcun reato in quanto non viene lesa la quiete “del pubblico”. In tali casi, come si vedrà a breve, si è in presenza di un semplice illecito civile contro cui è possibile azionare un giudizio in tribunale per ottenere il risarcimento del danno e un ordine di interdizione al protrarsi della molestia.
Viceversa, se le molestie derivanti dall’abbaiare del cane sono percepibili da un numero elevato di persone, si configura il reato.
Bisogna comunque prestare un minimo di tolleranza, come dice l’articolo 844 del codice civile, perché anche i cani hanno il diritto di abbaiare e non si può costringere loro a stare in silenzio. Il rumore diventa illecito quando è perseverante, quando avviene di notte o quando si può evitare con un comportamento diligente, ad esempio dando da mangiare all’animale, portandolo a spasso quando ha necessità oppure attraverso dei corsi di addestramento.
Chi chiamare quando il cane del vicino abbaia e dà fastidio?
Se il cane del vicino abbaia in continuazione dando fastidio al quartiere o all’intero palazzo è possibile denunciare il fatto alla polizia o ai carabinieri. Come detto, infatti, siamo dinanzi al reato di disturbo della quiete pubblica di cui ovviamente risponderà il possessore dell’animale. Questi sarà peraltro tenuto a risarcire i danni alle vittime del rumore.
In alternativa è possibile presentare la denuncia direttamente presso la Procura della Repubblica.
Trattandosi di un reato non più procedibile d’ufficio, non è più sufficiente la semplice segnalazione del privato ma è necessaria una vera e propriaquerela. Quindi se anche il soggetto molestato dovesse chiamare la polizia, le autorità intervenute sul luogo per accertare il compimento del reato dovranno redigere il conseguente verbale e chiederanno al privato se intende anche sporgere querela perché solo in questo caso gli atti saranno trasmessi alla Procura. Ma se gli agenti dovessero risultare occupati in altre attività, bisognerà recarsi personalmente presso la questura o la caserma più vicina.
Non è necessario, almeno in questa fase, fornire le prove del latrato. Nel successivo giudizio che verrà intentato al responsabile potranno essere sentiti a testimonianza la vittima e i vicini raggiunti dal rumore.
Se invece il rumore del cane non giunge a un «numero indeterminato di persone», siamo in presenza di un illecito civile: non è quindi possibile sporgere querela, né chiamare le autorità come la polizia o i carabinieri. In tale ipotesi bisogna rivolgersi a un avvocato il quale, come prima mossa, provvederà a inviare una diffida al proprietario chiedendogli di far cessare le molestie acustiche. Qualora tale tentativo non sortisca effetti, si procederà con una causa civile all’esito della quale la sentenza condannerà il responsabile a prendere le contromisure per evitare l’aggravamento della molestia, eventualmente imponendogli il pagamento di una somma in denaro per ogni giorno di inadempimento.
Varie sono le misure che il giudice potrebbe imporre per impedire il protrarsi delle molestie come, ad esempio, far frequentare al cane dei corsi appositi per l’addestramento, insonorizzare l’appartamento, vietare che l’animale venga lasciato la notte fuori dal balcone.
A ciò si può aggiungere una richiesta di risarcimento a patto però di dimostrare concretamente il danno subìto (che non è implicito nel semplice accertamento dell’illecito).
Attenzione a non farsi giustizia da sé, comportamento questo che può costare caro come è accaduto ad una condòmina di Bergamo che, affacciandosi di notte alla finestra urlando nell’intento di tacitare il cane del vicino che abbaiava, ha lei stessa disturbato la quiete degli altri condòmini ed è stata per questo condannata, dalla Cassazione (sentenza 47719/2018), al pagamento di una ammenda.
Si può chiamare l’amministratore di condominio se il cane del vicino abbaia?
L’amministratore di condominio è tenuto a far rispettare il regolamento del condominio. Pertanto non è competente in merito alle liti tra condomini se non hanno ad oggetto, appunto, i servizi condominiali o l’uso delle parti comuni.
Inutile quindi chiamare l’amministratore di condominio per imporgli di intervenire: questi potrebbe farlo solo qualora il regolamento di condominio, approvato all’unanimità, vieti di detenere animali di compagnia in casa o stabilisca degli orari di assoluto silenzio.
Si può mandare via il cane dalla casa ove si trova?
Se si agisce in via penale, il giudice può anche disporre il sequestro del canequando c’è il pericolo che il reato possa essere reiterato. È ciò che succede ad esempio quando il cane viene lasciato solo per gran parte del giorno perché il padrone lavora e non ha a chi affidarlo. O quando, nonostante la sentenza che condanni il proprietario a evitare le molestie – ad esempio tramite un corso di addestramento – non si ottenga alcun adempimento.
Fonte: www.laleggepertutti.it
– Come dimostrare una violenza di genere? Quante prove servono? Che valore ha la testimonianza della vittima? Foto, video e registrazioni audio: si possono usare? –
Gli atti di violenza nei confronti delle donne non accennano a diminuire: non si tratta solo di femminicidi, ma di ogni tipo di maltrattamento, a partire dallo stalking per finire con le molestie sul lavoro. Spesso c’è una certa ritrosia nel denunciare gli abusi subiti: molte volte, infatti, si tratterebbe di segnalare un proprio familiare, oppure una persona dalla quale si dipende economicamente. Altre volte, poi, è davvero difficile fornire delle prove convincenti. Con questo articolo ci occuperemo proprio di tale argomento, e cioè di quali prove servono per dimostrare la violenza contro le donne.
Contrariamente a quanto generalmente si crede, non occorre portare dei testimoni in giudizio per provare la violenza di genere: spesso è sufficiente la sola narrazione della vittima per convincere il giudice. Ma procediamo con ordine.
Principali reati contro la donna
Prima di vedere quali sono le prove per dimostrare una violenza di genere, analizziamo brevemente quali sono iprincipali reati di cui sono vittime le donne.
Stalking contro le donne
Commettestalking chiunque minaccia o molesta ripetutamente una persona, arrecandole una grave e perdurante stato d’ansia o di paura, ovvero incutendole un ragionevole timore per la propria o l’altrui incolumità, ovvero ancora obbligandola a mutare le proprie abitudini di vita [1]
Spesso le donne sono vittime di stalking da parte dei propri ex compagni, oppure da individui che non accettano di essere rifiutati.
Nel caso di stalking, le vittime hanno sei mesi di tempo per sporgere querela contro l’autore della condotta illecita.
Reato di violenza sessuale
Purtroppo è elevato il numero di donne che subisce abusi sessuali, soprattutto tra le mura di casa. La violenza sessuale è punita dalla legge con la reclusione da sei a dodici anni, con possibilità per il giudice di decidere una riduzione di due terzi della pena nei casi di minore gravità [2].
Per violenza sessuale non si intende solamente il rapporto carnale completo consumato contro la volontà della donna, ma anche qualsiasi atto che coinvolga una delle zone erogene della vittima: di conseguenza, anche un bacio non ricambiato potrebbe configurare questo delitto.
La violenza sessuale va denunciata alle autorità entro dodici mesi; salvo il ricorrere di circostanze aggravanti, infatti, si tratta di reato procedibile a querela di parte.
Maltrattamenti contro familiari e conviventi
Un’altra violenza che viene sistematicamente commessa è quella che si realizza tra le mura domestiche. È punito con la reclusione da tre a sette anni chi maltratta le persone conviventi; per maltrattamenti non devono intendersi solamente quelli fisici, ma anche (e, forse, soprattutto) quelli morali e psicologici [3].
La donna vittima di continueumiliazioni, di vessazioni, di insulti e di ingiurie potrà pertanto sporgere denuncia contro suo marito o contro il suo compagno quando ritiene di subire dei maltrattamenti, come detto non necessariamente fisici.
Violenza contro donne: cosa fare?
La donna vittima di violenza deve innanzitutto sporgere denuncia/querela alle autorità competenti, cioè presso i carabinieri, la polizia oppure direttamente in Procura. Essere tempestivi è importante visto che, come sopra ricordato, alcuni reati sono procedibili a querela di parte e, pertanto, occorre rispettare certi termini (sei mesi per lo stalking, 12 mesi per la violenza sessuale, ecc.).
Lo Stato mette a disposizione delle vittime di violenza di genere un numero anti violenza (1522) da poter contattare per ottenere tutte le informazioni utili, come ad esempio cosa fare subito dopo la denuncia, in attesa che le autorità intervengano.
Cos’è il Codice rosso?
Nei casi di violenza di genere o familiare la legge stabilisce una particolare procedura d’urgenza che prende il nome di Codice rosso.
In pratica, la vittima di maltrattamenti, di stalking o di abusi sessuali riceve un’assistenza quasi immediata da parte delle autorità, visto che la polizia, ricevuta la querela, deve immediatamente trasmetterla al pubblico ministero il quale, salvo esigenze di tutela di minori o di riservatezza delle indagini, entro tre giorni ascolta la persona offesa o chi ha sporto denuncia al fine di chiedere al gip l’adozione delle opportune misure cautelari, come ad esempio l’allontanamento del responsabile dalla casa di famiglia [4].
Come provare la violenza sulle donne?
Come detto in apertura di questo articolo, molte donne, seppur vittime di violenza, desistono dal denunciare gli abusi subiti alle autorità: spesso ciò accade perché gli aguzzini sono a loro legate (per vincolo di sangue o sentimentale), oppure perché pensano di non essere credibili davanti alle autorità. Questi timori sono tuttavia infondati, in quanto la violenza di genere può essere provata con ogni mezzo. Approfondiamo la questione.
La testimonianza della donna vittima di violenza
Secondo la legge italiana, è sufficiente la sola deposizione della vittimaper poter ottenere la condanna dell’imputato.
Dunque, per provare una violenza contro una donna può bastare la testimonianza della persona offesa. In un caso del genere, però, il giudice dovrà avere cura di valutare con particolare rigore l’attendibilità della narrazione della donna, visto che essa non può essere comprovata da altre persone.
Se, pertanto, una donna ha subito una violenza senza che nessuno vi abbia assistito, ciò non deve spingere la vittima a tacere: occorrerà ugualmente sporgere denuncia e narrare alle autorità per filo e per segno ciò che è accaduto.
L’esame medico per provare la violenza
Quando la violenza contro la donna sia particolarmente brutale, si potrà ricorrere a un esame medico che accerti l’abuso subito.
La perizia medica potrà essere fondamentale sia nel caso di violenza fisica (stupro, percosse, ecc.) che nell’ipotesi di violenza psicologica: in entrambe le ipotesi, infatti, un consulente specializzato potrà rinvenire le tracce della violenza patita.
La prova scientifica può avere un valore determinante all’interno di un processo penale, in quanto la certificazione medica potrebbe diventare una prova inconfutabile: pensa, ad esempio, alle analisi del sangue che dimostrino che la donna sia stata drogata prima di essere violentata, all’esame psichiatrico che attesti i gravi turbamenti psichici subiti dalla vittima di stalking o abusi in famiglia, oppure ancora alla visita medica che sia in grado di certificare lesioni genitali e malattie sessuali (conseguenze tipiche della violenza carnale).
Fotografie e filmati per dimostrare la violenza
Tra le prove documentali utili per dimostrare una violenza contro la donna rientrano senz’altro i filmati e le fotografieche immortalino le condotte illecite.
Allo stesso modo, valide prove possono essere le registrazioni audio: pensa alla donna che registri le telefonate del suo stalker oppure le continue minacce del compagno con cui vive.
Violenza sulle donne: testimonianze
Ovviamente, importantissime sono anche le testimonianzedelle persone che hanno assistito alle violenze, o che comunque siano in grado di riferire in merito alle conseguenze negative sulla salute della vittima.
Perché una testimonianza sia valida, serve che il testimone abbia assistito personalmente alla violenza: ad esempio, la donna vittima di abusi domestici potrebbe chiamare i propri figli a testimoniare. Si ricordi, infatti, che chiunque può testimoniare, anche il familiare, i propri genitori o i figli.Fonte: www.laleggepertutti
– Cosa succede se il vigile sbaglia a indicare la targa sulla multa? Per contestare il verbale è necessaria la querela di falso? Ecco cosa dice la Cassazione –
Non tutti gli errori commessi dai verbalizzanti consentono di impugnare una multa stradale. Solo quando ciò ostacola il diritto di difesa del conducente è possibile far ricorso al giudice e vedersi annullare la contravvenzione. Ad esempio, non è invalidante l’errore di battitura sul modello dell’auto o l’omessa indicazione del numero civico ove è avvenuto il divieto di sosta in una via non troppo lunga. Lo è invece l’errore sul giorno dell’infrazione.
Cosa succede invece nel caso di una multa con targa errata? È possibile fare ricorso e come contestarla?Alcune indicazioni ci vengono fornite da una recente ordinanza della Cassazione che val la pena di commentare. Ma procediamo con ordine.
Si può contestare una multa con targa errata?
Hai ricevuto una multa con un errore di battitura sulla targa della tua auto? La tua targa non corrisponde al modello indicato nel verbale? Ti starai chiedendo se sia possibile contestarla e come farlo nel modo corretto.
La prima cosa che devi sapere è che, secondo la giurisprudenza, è possibile impugnare un verbale per violazione del codice della strada se in esso è indicata una targa completamente diversa, anche se il tipo di veicolo corrisponde a quello che tu guidavi al momento dell’infrazione.
Invece, l’errata indicazione di un solo numero o di una cifra della targa comporta non comporta la nullità del verbale se dal resto della contravvenzione è chiaramente identificabile il conducente (si pensi a un “3” che diventa un “6” per la vicinanza sulla tastiera, quando invece è stato indicato esattamente il modello dell’auto, i dati del conducente e dei dati della relativa patente).
Come si contesta la multa per errore sulla targa?
Il fatto che la multa contenga un errore non la rende automaticamente nulla. È infatti necessaria una pronuncia del giudice che le tolga ogni valore. Diversamente la contravvenzione diventa definitiva e, non essendo più contestabile, dovrà essere pagata. Quindi è necessario che il proprietario dell’auto faccia ricorso contro il verbale. In caso contrario non potrà più opporsi ad esso.
Come si fa la contestazione contro una multa per targa errata?
Come per tutte le contravvenzioni stradali, ci sono due modi per fare ricorso:
- ricorso al giudice di pace, entro 30 giorni dalla notifica del verbale;
- ricorso al prefetto, entro 60 giorni dalla notifica del verbale.
Nel primo caso bisogna pagare il contributo unificato (la tassa per la giustizia) e partecipare alle udienze. Nel secondo caso basta inviare il ricorso all’organo accertatore o direttamente al Prefetto.
Per contestare l’errore sulla targa è necessaria anche la querela di falso?
La regola vuole che, in caso di contrasto tra le dichiarazioni del privato e quelle di un poliziotto, prevalgano queste ultime: egli infatti è un pubblico ufficiale e le sue attestazioni fanno “piena prova”.
Pertanto, di regola, ogni circostanza accertata dagli agenti con i loro stessi occhi non può essere oggetto di contestazione a meno che non si svolta un apposito processo chiamato querela di falso. La querela di falso è rivolta a togliere il valore di “piena prova” alle dichiarazioni del pubblico ufficiale. Bisognerebbe ad esempio svolgere tale iter se si intende dimostrare la falsità delle dichiarazioni del verbalizzante di aver visto il conducente attraversare l’incrocio a semaforo rosso o guidare con il cellulare in mano o senza le cinture allacciate.
Dunque la querela di falso è un secondo giudizio che si somma a quello di contestazione della multa.
Ci si è posti la domanda se ciò valga anche nel caso di errata indicazione della targa. Sul punto la Cassazione ha detto che, nel caso di un errore sulla targa, per contestare la multa non è necessaria la querela di falso. La percezione sensoriale dell’agente che rileva la targa di un veicolo in movimento può essere soggetta a errori materiali. Questa situazione non è quindi coperta da fede privilegiata, il che significa che è possibile contestare l’errore nella multa relativo alla targa del veicolo senza dover necessariamente proporre la querela di falso ma contestando l’errore con la normale opposizione al verbale.
ESEMPIO:
Poniamo il caso di Mario, che riceve una multa per aver invaso la corsia opposta. Tuttavia, sulla multa c’è un errore nella targa e anche il colore dell’auto non corrisponde a quello del suo veicolo. In questo caso, Mario può contestare la multa dinanzi al giudice senza dover anche proporre una querela di falso.
Se l’opposizione alla multa viene accolta dal giudice, la sanzione verrà annullata. Il conducente non sarà quindi tenuto a pagare l’importo previsto dalla multa e non subirà la decurtazione dei punti della patente.
Se l’opposizione alla multa viene respinta, il conducente sarà tenuto a pagare l’importo previsto dalla sanzione. Ma se il ricorso è stato presentato al Prefetto, l’importo da corrispondere raddoppia.
Note:
[1] Cass. ord. n. 12091/2023 del 10.05.2023: In tema di contestazione di una violazione del codice della strada, è riconosciuta l’ammissibilità della contestazione relativa al numero di targa del veicolo senza necessità di proporre querela di falso laddove tale indicazione sia riconducibile ad una mera percezione del verbalizzante suscettibile di errore materiale. n tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, per contestare le affermazioni contenute in un verbale proveniente da un pubblico ufficiale su circostanze oggetto di percezione sensoriale, e come tali suscettibili di errore di fatto – nella specie, la rilevazione del numero di targa di un’auto – non è necessario proporre querela di falso, ma è sufficiente fornire prove idonee a vincere la presunzione di veridicità del verbale, secondo l’apprezzamento rimesso al giudice di merito.
Fonte: www.laleggepertutti.it
Scopri le differenze tra reintegrazione in forma specifica e risarcimento per equivalente nel caso di un’auto danneggiata a seguito di un incidente stradale.
Dopo un incidente stradale, l’assicurazione del responsabile è tenuta a risarcire il danneggiato per i danni subiti al veicolo. Ma quali sono le opzioni a disposizione del danneggiato e come si determina il giusto risarcimento?
Il problema si pone tutte quelle volte in cui il valore del mezzo anteriore all’incidente è inferiore al danno prodotto sicché per la sua riparazione è necessario spendere una somma superiore al valore stesso.
In casi del genere le assicurazioni tendono a riconoscere un risarcimento non superiore al valore di mercato del veicolo (cosiddetto risarcimento per equivalente), ma la Cassazione ha di recente detto [1] che va pagata la riparazione per intero (cosiddetto risarcimento in forma specifica) quando il costo non supera di molto il prezzo di mercato dell’auto. Cerchiamo di chiarire meglio questi discorsi.
Cos’è la reintegrazione in forma specifica e il risarcimento per equivalente?
Esempio: Poniamo il caso di Tizio che ha subito un incidente stradale causato da Caio. La sua auto è stata danneggiata e ora si chiede quale tipo di risarcimento può richiedere.
Risposta: Ilrisarcimento in forma specifica prevede il pagamento da parte del responsabile dell’incidente delle spese necessarie per riparare il veicolo danneggiato.
Al contrario ilrisarcimento per equivalente consiste nel pagamento della differenza tra il valore dell’auto prima dell’incidente e il valore dell’auto danneggiata.
In quali casi si applica la reintegrazione in forma specifica o il risarcimento per equivalente?
Esempio: Tizio scopre che il costo delle riparazioni per la sua auto è pari a 3.000 euro, mentre il valore di mercato dell’auto è di 2.000 euro. Quale tipo di risarcimento può richiedere?
Risposta: Secondo l’articolo 2058 del Codice Civile, la regola prevede la reintegrazione in forma specifica. Tuttavia, il risarcimento per equivalente può essere applicato quando la riparazione risulta troppo onerosa per il responsabile dell’incidente (cioè, il costo delle riparazioni supera notevolmente il valore di mercato del veicolo) o se la reintegrazione in forma specifica comporta un arricchimento per il danneggiato.
Come si determina il risarcimento se la riparazione è troppo costosa?
Esempio: Caio sostiene che riparare l’auto di Tizio sia troppo costoso e che, inoltre, il valore dell’auto aumenterebbe notevolmente dopo la riparazione. Come può il giudice stabilire quale tipo di risarcimento è più appropriato?
Risposta: Il giudice deve verificare se la reintegrazione in forma specifica determina un arricchimento per il danneggiato, osservando se l’intervento del carrozziere o del meccanico comporta un aumento di valore del veicolo rispetto a quello precedente al sinistro.
Inoltre, il giudice deve valutare se il costo delle riparazioni supera notevolmente il valore di mercato del veicolo e considerare le ragioni del danneggiato per preferire la riparazione alla sostituzione del veicolo, come l’abitudine o il risparmio di tempo. L’obiettivo è garantire la migliore soddisfazione del danneggiato senza consentirgli un indebito arricchimento.
Auto incidentata: ai fini del risarcimento danni, è meglio ripararla o sostituirla?
Esempio: Nel caso di Tizio e Caio, come può il giudice determinare quale forma di risarcimento sia più equa e adeguata per entrambe le parti coinvolte?
Risposta: Il giudice deve valutare attentamente il contesto e le circostanze dell’incidente, il costo delle riparazioni, il valore di mercato del veicolo, e le ragioni delle parti per preferire una soluzione rispetto all’altra. È fondamentale equilibrare gli interessi del danneggiato e del responsabile dell’incidente, evitando di imporre un risarcimento troppo oneroso per il debitore o una locupletazione ingiustificata per il danneggiato.
Quali diritti ha il danneggiato nel caso di risarcimento per equivalente?
Il danneggiato ha diritto a ricevere un risarcimento congruo e proporzionato al danno subito. Nel caso del risarcimento per equivalente, il danneggiato riceverà la differenza tra il valore dell’auto prima dell’incidente e il valore dell’auto danneggiata. È importante ricordare che l’obiettivo del risarcimento è ripristinare, per quanto possibile, la situazione preesistente al sinistro e garantire la migliore soddisfazione del danneggiato.
L’iva del meccanico va rimborsata?
La Cassazione ha detto che nella somma del risarcimento deve essere compresa anche l’Iva che il danneggiato deve pagare al carrozziere.
Fonte: www.laleggepertutti.it
È possibile rinunciare agli straordinari e quali rischi si corrono per chi decide di non effettuarli?
In un mondo del lavoro sempre più esigente, gli straordinari sono spesso una pratica comune. Ma che succede a chi si rifiuta di fare lo straordinario? Quali sono i rischi per chi rifiuta di lavorare di più del normale orario di lavoro? La questione è stata affrontata dalla Cassazione in una recente ordinanza [1].
In questo articolo, analizzeremo in dettaglio la normativa sul lavoro straordinario e i possibili rischi per i lavoratori che decidono di non svolgere ore extra.
Cosa prevede la legge riguardo agli straordinari?
Gli straordinari sono regolamentati dal Decreto Legislativo n. 66/2003 e dai contratti collettivi nazionali (CCNL) di categoria. Tali normative stabiliscono i limiti massimi di ore straordinarie che un lavoratore può effettuare e le condizioni in cui il datore di lavoro può richiederle.
È possibile rinunciare agli straordinari?
Sì, in teoria un lavoratore può rinunciare a svolgere ore di lavoro straordinario. Tuttavia, tale rifiuto potrebbe essere considerato un mancato adempimento degli obblighi contrattuali se l’azienda ha una reale necessità di ricorrere allo straordinario per ragioni produttive o organizzative e se il rifiuto non è giustificato da motivazioni valide. In tali ipotesi dunque il dipendente non può rifiutare lo straordinario richiesto dal datore.
Quali sono i rischi per chi decide di non effettuare straordinari?
Il rifiuto, solo se sistematico e ingiustificato, di effettuare straordinari può comportare conseguenze per il lavoratore. Tali conseguenze possono includere sanzioni disciplinari o, in casi estremi, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, qualora il rifiuto causi un pregiudizio significativo all’organizzazione e alla produttività aziendale.
In tal caso però il datore deve prima inviare la raccomandata con la contestazione disciplinare e dare al dipendente 5 giorni per presentare difese e/o chiedere di essere ascoltato personalmente. Solo all’esito di tale procedura può essere adottato il provvedimento sanzionatorio e, nei casi più gravi, il licenziamento.
Poniamo il caso di Caio, che lavora in un’azienda metalmeccanica e decide di non effettuare straordinari. Se il datore di lavoro riesce a dimostrare che la necessità di svolgere ore extra è giustificata e che il rifiuto di Caio causa un danno all’azienda, Caio potrebbe incorrere in sanzioni disciplinari o addirittura essere licenziato per giustificato motivo oggettivo.
Quali sono i limiti previsti per gli straordinari?
I limiti massimi di ore straordinarie sono stabiliti dai CCNL di categoria. In genere, i contratti prevedono un limite massimo di 250 ore di straordinario all’anno, ma tale limite può variare a seconda del settore e del contratto applicato.
In quali casi un lavoratore può giustificare il rifiuto di effettuare straordinari?
Un lavoratore può giustificare il rifiuto di effettuare straordinari in presenza di motivazioni valide, come problemi di salute, impegni familiari o altri motivi personali.
È importante che il lavoratore comunichi tempestivamente al datore di lavoro le ragioni del proprio rifiuto, preferibilmente per iscritto, onde evitare possibili incomprensioni e conseguenze negative sul piano disciplinare.
Cosa prevede il contratto collettivo riguardo agli straordinari?
Il contratto collettivo stabilisce le condizioni e i limiti per il ricorso agli straordinari, oltre ai compensi e alle maggiorazioni previste per le ore extra. Inoltre, il contratto può prevedere clausole specifiche riguardo alla possibilità di rinunciare agli straordinari o alle situazioni in cui il lavoratore è tenuto a effettuarli.
Il datore di lavoro è tenuto a consultare i sindacati prima di richiedere straordinari?
In base al contratto collettivo, il datore di lavoro può essere tenuto a consultare i sindacati prima di richiedere ore straordinarie, qualora si superino determinate soglie di ore extra. Ad esempio, in base al contratto collettivo metalmeccanici, il datore può chiedere ai dipendenti la prestazione extra senza avvisare i sindacati nei limiti di due ore al giorno e otto la settimana, con preavviso di almeno ventiquattro ore.
Quali diritti ha il lavoratore che viene licenziato per aver rifiutato gli straordinari?
Se un lavoratore viene licenziato per giustificato motivo oggettivo a causa del rifiuto di effettuare straordinari, avrà diritto al preavviso, così come previsto dal contratto collettivo. Inoltre, potrà rivolgersi al giudice del lavoro per contestare il licenziamento e chiedere eventuali risarcimenti o indennizzi. A tal fine deve prima contestare il licenziamento con una lettera da inviare al datore a mezzo raccomandata o PEC entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento. Nei 180 giorni successivi andrà depositato il ricorso in tribunale.
Note:
[1] Cass. ord. n. 10623/2023.
Fonte: www.laleggepertutti.it
– Gli utenti che pubblicano post intimidatori sui social rischiano condanne per stalking. Scopriamo i dettagli di una recente sentenza della Corte di Cassazione –
La pubblicazione di post intimidatori sui social network può portare a gravi conseguenze legali. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha confermato una condanna per stalking, stabilendo un importante precedente giurisprudenziale. Scopriamo cosa si rischia e quali sono gli aspetti più rilevanti della decisione [1].
Qual è il caso di riferimento per la condanna per stalking sui social?
Poniamo il caso di una donna che pubblichi quotidianamente post intimidatori nei confronti di un’altra donna, accusandola di varie condotte. Il comportamento in questione deve ritenersi illecito e può, già di per sé, integrare gli estremi della diffamazione se mira a generare discredito sulla reputazione altrui, al di là del fatto se quanto asserito sia vero o meno.
Se tuttavia la condotta genera nella vittima uno stato di turbamento e di ansia, o il timore di pericolo per la propria incolumità o la spinge a modificare le proprie abitudini quotidiane, il responsabile può essere condannato per stalking.
Quali sono gli elementi che hanno portato alla condanna per stalking?
La Corte territoriale ha valutato l’insieme dei comportamenti della donna, tra cui appostamenti e la pubblicazione di post dal chiaro tenore minatorio. La Corte ha sottolineato che le sole pubblicazioni di post su svariati social network erano sufficienti, da sole, a integrare il reato di atti persecutori, appunto lo stalking. Ciò è dovuto al loro contenuto non solo diffamatorio, ma anche minatorio per la loro virulenza e ossessiva ripetitività.
Qual è il ruolo della diffamazione nel caso esaminato?
La Corte di Cassazione ha esaminato anche il reato di diffamazione, rigettando le obiezioni della difesa. Secondo i giudici, l’esercizio del diritto di critica non autorizza l’offesa rivolta alla sfera privata del soggetto criticato mediante l’uso diespressioni denigratorie. Le espressioni utilizzate dalla donna sono state giudicate eccessive, oltrepassando il limite della continenza, che è un limite immanente anche all’esercizio del diritto di critica.
Quali sono le implicazioni di questa sentenza per gli utenti dei social network?
La sentenza della Corte di Cassazione stabilisce un importante precedente giurisprudenziale, mettendo in evidenza che la pubblicazione di post intimidatori sui social network può portare a gravi conseguenze legali, come la condanna per stalking e, conseguentemente, all’obbligo di risarcire i danni morali alla vittima.
La vittima pertanto può:
- sporgere querela presso la polizia postale, i carabinieri o direttamente presso la procura della Repubblica entro 6 mesi dall’ultimo post se si tratta di stalking o entro 3 mesi se si tratta di diffamazione;
- rivolgersi a un avvocato affinché agisca per chiedere il risarcimento del danno al responsabile (tramite la costituzione di parte civile nel processo penale o con un’autonoma causa civile);
- in alternativa alla querela, in caso di stalking, rivolgersi al Questoreaffinché ammonisca verbalmente il responsabile avvisandolo che, proseguendo la condotta contestata, si procederà automaticamente per le vie giudiziari.
Per sporgere la querela è sufficiente acquisire gli screenshot che dimostrano la condotta illecita e allegarli alla querela stessa.
Fonte: www.laleggepertutti.it
– Incidenti stradali: come farsi risarcire la portiera danneggiata dalla macchina accanto –
Il più frequente caso di incidente stradale – se così vogliamo chiamarlo – è quello della «sportellata». È capitato a tutti di aprire la portiera dell’auto e di urtare la macchina accanto, a volte rovinandone la carrozzeria, altre solo la vernice. Si può, in questi casi, attivare l’assicurazione e ne vale davvero la pena? Cause in tribunale per risarcimento da sportellata non ce ne sono molte chiaramente, ma i princìpi affermati dalla giurisprudenza in merito ai danni automobilistici consentono di fare il punto della situazione e di stabilire come muoversi in tali casi.
Chi danneggia un’altra auto, anche se ferma, è tenuto a risarcire il proprietario.
L’obbligo di risarcimento è un principio generale sancito dal nostro Codice civile [1]: «Chiunque cagiona ad altri un danno ingiusto deve risarcirlo».
Nel caso in cui il danno sia prodotto durante la circolazione stradale e il responsabile sia un veicolo con obbligo di assicurazione, il risarcimento viene versato dalla compagnia con cui quest’ultimo ha sottoscritto la relativa polizza Rc auto. Nel concetto di «circolazione» rientrano tutte le fasi ad essa collegate, quindi dalla marcia alla sosta, dal parcheggio all’uscita del parcheggio. Se una macchina è, quindi, parcheggiata e ferma ed un’altra le procura un danno, il proprietario della prima ha diritto al risarcimento sia che quest’ultima fosse in movimento sia che fosse ferma.
I conducenti sono tuttavia liberi di risolvere la questione bonariamente, senza l’intervento dell’assicurazione. Ciò succede quando i danni sono minimi. L’attivazione della polizia, infatti, determina sempre un aumento di due classi di merito del cosiddetto «bonus/malus». Quindi, il danneggiante potrebbe ripagare i danni con i propri soldi pur di non vedersi aumentare il premio.
A tal fine, è necessario che le parti trovino un’intesa sull’entità del risarcimento. Se così non dovesse essere, allora sarebbe obbligatorio fornire gli estremi della propria polizza assicurativa. Chi si rifiuta di farlo può essere sanzionato in via amministrativa da 296 a 1.184 euro. In più, il danneggiato può comunque risalire alla compagnia tramite un’ispezione al Pra effettuata tramite indicazione della targa.
ESEMPIO:
Giovanni urta l’auto di Francesco. Francesco sostiene che ci sia un danno da mille euro mentre secondo Giovanni l’auto può essere riparata con solo 200 euro. I due non trovano un accordo. Giovanni non si libera dal suo obbligo consegnando a Francesco 200 euro, ma dovrà fornirgli gli estremi della propria assicurazione.
Sportellata: a quanto ammonta il risarcimento?
Non è possibile determinare in astratto a quanto può ammontare il risarcimento da sportellata. Tutto dipende dal tipo di veicolo, dalla vernice, dall’entità del danno.
Il proprietario ha diritto al ripristino del veicolo per com’era prima, tenendo tuttavia conto che, se lo stesso si trovava già in condizioni non ottimali, non è dovuta la riparazione integrale. Bisogna quindi tenere conto dello stato della portiera antecedente all’urto. È tuttavia il danneggiante a dover dimostrare che il veicolo presentava già delle evidenti abrasioni o delle rigature.
Le parti possono tentare di definire la vicenda affidando a una officina terza e imparziale la quantificazione del danno.
Se l’auto che dà la sportellata scappa, che fare?
Nel caso in cui il proprietario dell’auto si accorga della sportellata quando già il responsabile se n’è andato, la legge prevede la possibilità di ottenere un risarcimento dal Fondo di Garanzia Vittime della Strada tutte le volte in cui si è subito un danno da un’auto fantasma.
Per il risarcimento dei soli danni al veicolo, però, esiste una franchigia di 500 euro. Quindi, ad esempio:
- per un danno di 600 euro vengono risarciti solo 100 euro;
- per un danno di 450 euro non viene versato alcun risarcimento.
Per ottenere il risarcimento dal Fondo non basta presentare la domanda ma bisogna anche dare prova:
- dell’incidente;
- della dinamica dell’urto;
- dei danni.
Occorrerà, quindi, avvalersi di almeno un testimone oculare convincente. Non è necessario presentare una denuncia ai Carabinieri per farsi risarcire dal Fondo di Garanzia.
Fonte: www.laleggepertutti.it